Barche tipiche e tradizionali di Venezia e dell’alto Adriatico di Luigi Divari

Nel corso del ventesimo secolo le migliaia di imbarcazioni tradizionali dell’area veneta sono state sostituite con degli scafi di nuova generazione, naturalmente motorizzati, fatti con tecniche e materiali decisamente innovativi. Di conseguenza, il nuovo sviluppo ha messo fine al mestiere millenario dei costruttori di barche di legno. I luoghi stessi dove queste attività si svolgevano, gli squeri, hanno, da allora, subito progressive trasformazioni per i nuovi utilizzi, con la dispersione di quanto vi si era lungamente accumulato, in termini di memorie, sagome o sesti di barche, esperienze di lavoro. Assieme agli strumenti manuali, si è persa anche una quantità di termini tecnici, molto specifici.

Alcune erano abbastanza grosse per navigare per mare aperto, ma non appartenevano a nessuna categoria di nave e mostravano varianti minime dei profili anche tra località vicine. C’erano poi tutte le versioni di barche medie e minori, fino alle dimensioni minime, per usi individuali. Alcune, tra le più longeve, si potevano ancora vedere negli anni Sessanta e Settanta, e mostravano forme e stili costruttivi immutati almeno dalla prima metà dell’Ottocento, quando, già allora, rappresentavano versioni evolute di vecchie barche settecentesche.

In generale, vantavano grande efficienza delle forme, per la conduzione remo-velica, unita a eleganza delle proporzioni e relativa semplicità della struttura, messa a punto da artigiani i quali, lavorando sempre sugli stessi scafi, non avevano mai avuto incertezze sul corretto procedimento delle loro opere. Con le seghe e le asce si sagomavano i pezzi strutturali dello scheletro, in rovere, e con trivelle di molte misure, e molta pazienza, si preparava la via di ogni chiodo. Con ore di fuoco, da un verso, e acqua dall’altro, ogni corso del fasciame veniva portato a qualsiasi curvatura richiesta dalla costruzione.

Negli squeri, a fianco di segantìni e pròti, lavorava ancora il fabbro, che sapeva modellare alla forgia i molti ferri da barca, da quelli da adattare ai diversi profili delle prue, che prendevano il titolo più elegante di fèri lustri, ai chiodi veri e propri per lo scafo, alle ferramente di coperta e, naturalmente, dei timoni. A scafo finito, il ferro di un altro specialista, il calafato, ripercorreva ogni minima fessura del legno, da prua a poppa e dal fondo alla coperta, e il battere sordo del suo maglio sulle barche si sentiva come la voce di ogni squero in attività, anche da lontano. All’ombra delle teze, i ferri e i mestieri erano rimasti praticamente inalterati dal medioevo.

Il lavoro, e il quotidiano bagnamento con l’acqua di mare, avrebbero successivamente contribuito a mantenere quei legni in buona condizione, anche se per loro protezione non si usava altro che il minio con l’olio di lino, prima della spalmatura di pece, con lo scovolo da pegolòto, di pelle di pecora.

Le barche appena varate apparivano perciò, quasi sempre, tutte di quel colore nero, lucido e iridescente, che a Venezia si conosceva per tinta pégola (sui vecchi documenti d’archivio il contratto di costruzione prevedeva alla fine la consegna della barca negra in acqua), e solo quelle più importanti, che avevano un nome e un compartimento di origine, ricevevano qualche tratto di colore.

Nel territorio veneto, tra il Po e il Tagliamento, altre numerosissime barche nascevano e restavano invece, per tutta la loro vita, tra lagune e acque interne, ossia tra canneti e ospitali osterie. I loro uomini non facevano il mestiere dei marinèri ma quello, molto meno pericoloso, dei barcaioli (che sulla terraferma veneta diventavano barcàri); Anche se non erano mai stati sul mare, conoscevano bene la fatica quotidiana richiesta dalla barca per compiere grandi distanze alla spinta lenta del remo, dell’alzana e della vela.

Le tipologie di scafi che superarono la soglia del Novecento, trovandosi coinvolte nella modernizzazione dei trasporti, della pesca e di vari processi produttivi, si rivelarono sempre più inadeguate nel confronto con le nuove barche a motore, specialmente dopo la seconda guerra mondiale. Di conseguenza, nel breve periodo di una generazione finì ogni investimento e interesse per il loro mantenimento. Una buona parte di esse furono ridotte a legname da fuoco, e in questo modo se ne volatizzò anche la sagoma, con la unica eccezione mediterranea delle gondole veneziane, nella attuale versione porta turisti, che entreranno forse nel terzo millennio grazie ai gondolieri. Gli scafi grandi, più impegnativi per la demolizione, restarono abbandonati, come tutti i loro antenati, lungo le anse dei canali, sulle secche vicine ai vecchi cantieri, dove erano sorti i cimiteri delle barche, e dopo molte stagioni di acqua e di sole, anche di quelli non si conservò nemmeno un ricordo.

L.D.

(n.d.r.: Testo estratto in sintesi da Luigi Divari, Barche del Golfo di Venezia, Chioggia 2008)